In un mondo che ogni giorno si concentra su social, gossip e frivolezze di vario genere, oggi vorrei provare – almeno per un momento – a spostare l’attenzione su temi ben più gravi, di cui si parla soltanto quando esplodono in tutta la loro drammaticità, ma raramente si cerca di prevenire.
Negli ultimi giorni, infatti, il nome di Faneto, giovane trapper milanese con quasi un milione di ascoltatori mensili su Spotify, è finito al centro di una bufera mediatica. La sua ex compagna, Alessandra, lo ha accusato pubblicamente – tramite alcune storie su Instagram – di violenza fisica, minacce e abusi sessuali avvenuti dopo la fine della loro relazione. A sostegno delle sue parole, la ragazza ha condiviso foto e video che documenterebbero i maltrattamenti subiti.
Le immagini e i racconti diffusi hanno inevitabilmente scosso l’opinione pubblica: tagli e ferite sul volto, frasi di minaccia e umiliazione, parole di odio che fanno rabbrividire. È impossibile restare indifferenti davanti a certi contenuti, anche senza conoscere con certezza la versione completa dei fatti.
Questo episodio riapre una ferita profonda nella nostra società, la stessa che si è manifestata – solo pochi mesi fa – con il caso di Giulia Cecchettin, per citarne uno, ma anche con tanti altri nomi che purtroppo si aggiungono a una lista sempre più lunga. Di fronte a vicende simili, sorge spontanea una domanda: che cosa può spingere un essere umano a infliggere tanta violenza a un’altra persona? È davvero una questione di rabbia, di potere, di fragilità, o di una cultura che ancora oggi tende a giustificare, minimizzare, normalizzare certi comportamenti?
La trap, come ogni forma d’arte, riflette la realtà che la circonda. È uno specchio — talvolta distorto, talvolta crudo — della società in cui viviamo. E forse, invece di demonizzarla, dovremmo chiederci cosa racconti davvero di noi. Perché la violenza, in qualunque forma si manifesti, non appartiene a un genere o a una categoria: è una responsabilità che ci riguarda tutti, come individui e come comunità.
Episodi di questo tipo, purtroppo, non sono isolati. E — per quanto difficile sia ammetterlo — non saranno gli ultimi se continueremo a ignorarne le radici. Si parla spesso di progresso, di un mondo in costante evoluzione, ma resta da capire in che direzione stiamo andando. L’intelligenza artificiale, la realtà virtuale, le stampanti 3D: conquiste straordinarie, certo. Ma rischiano di apparire vuote se, parallelamente, non cresciamo anche sul piano umano.
Perché la vera modernità non si misura con la tecnologia che utilizziamo, ma con la sensibilità con cui scegliamo di stare al mondo.
Perché la vera evoluzione non è quella tecnologica, è quella umana. E “umanità” è un termine che, col passare del tempo, molti sembrano aver dimenticato. Non ricordiamo più cosa significhi davvero essere umani, provare empatia, rispetto, responsabilità verso l’altro. Ed è da lì che dovremmo ripartire, prima di ogni progresso, prima di ogni innovazione.
Al di là dell’indagine giudiziaria — che, se confermata, rappresenterebbe un fatto di estrema gravità — questa vicenda apre inevitabilmente una riflessione più ampia sulla scena trap italiana. Un ambiente spesso giudicato in modo frettoloso, accusato di trasmettere modelli tossici o comportamenti discutibili. Ma ridurre tutto alla musica sarebbe un errore. Come ha scritto qualcuno sui social, “il problema non è il rap, ma la persona: Faneto avrebbe potuto compiere le stesse azioni anche se non fosse stato un artista”. Ed è proprio questo il punto: non si può incolpare un genere musicale per le scelte individuali di chi lo rappresenta.
Non voglio fare il moralista, e so bene che non sarà certo questo articolo a cambiare il mondo. Posso soltanto provare a comprendere quanto possa essere difficile vivere una vita ingiustamente segnata da persone “fragili”, che scelgono di sfogare la propria rabbia nel modo più vile e atroce. Vorrei però rivolgermi a chiunque stia attraversando una situazione complicata — che si tratti di violenza, abuso o semplicemente di un momento buio. È un pensiero che forse avete già sentito mille volte, ma vi invito a leggerlo davvero, questa volta, e a rifletterci:
Parlatene. Con chiunque vi sia vicino, con un amico, un familiare, un insegnante. Denunciate, non lasciate che tutto passi come se fosse “una cosa da niente”. Perché qualcuno disposto ad ascoltarvi c’è sempre, qualcuno che vi vuole bene e che può aiutarvi a rialzarvi.
Esistono numeri e servizi dedicati, pronti ad accogliere chi vive situazioni di violenza o disagio, esterno o interiore. Non restate in silenzio: la voce, anche se fragile, resta l’arma più forte che abbiamo.
“La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta i più deboli” – Mahatma Gandhi
