
È il 13 agosto 2007 quando a Garlasco, un piccolo comune in provincia di Pavia, Chiara Poggi, una ragazza di 26 anni, viene trovata morta nella villetta di famiglia. La giovane, laureata in Economia e da poco impiegata in un’azienda milanese, era sola in casa: i genitori e il fratello Marco si trovavano in vacanza. A lanciare l’allarme è il fidanzato, Alberto Stasi, che racconta di essersi recato da lei quella mattina e di
averla trovata priva di vita. I sospetti degli inquirenti si concentrano subito su di lui. Gli elementi raccolti inizialmente portano in questa direzione: l’assassino sarebbe un uomo con il 42 di piede e avrebbe usato un oggetto contundente per colpire ripetutamente la vittima. Stasi diventa l’unico indagato. Tra i riscontri, la testimonianza di un vicino che riferisce di aver visto una bicicletta nei pressi dell’abitazione, condotta da un ragazzo biondo – come Stasi. Altro dettaglio ritenuto sospetto: le scarpe del giovane risultano insolitamente pulite, nonostante la scena del crimine fosse cosparsa di sangue. Da questi indizi prende il via un processo lungo e complesso, che si concluderà solo nel 2015 con la condanna di Alberto Stasi a 18 anni di carcere per omicidio volontario.
Ma perché si torna a parlare del caso dopo quasi vent’anni? Perché c’è una svolta clamorosa: una nuova impronta, rinvenuta su una parete delle scale che conducono al luogo del delitto, non appartiene a Stasi, bensì ad Andrea Sempio, amico del fratello della vittima. Un dettaglio che riapre interrogativi mai del tutto sopiti. Nel servizio condotto da Le Iene, in onda martedì 20 maggio, emergono diversi nuovi dettagli, tra
cui i messaggi scambiati tra la cugina di Chiara Poggi, Paola Cappa, e Francesco Chiesa Soprani (ex manager), in cui la donna confessa testuali parole alla sorella Stefania: “Mi sa che abbiamo incastrato Stasi”.
Una dichiarazione a dir poco misteriosa, che rivela probabilmente il fatto che ad aver pianificato l’omicidio non era una singola persona, ma potrebbe non essere stato un gesto isolato. Ora, non sappiamo se Stasi sia il vero colpevole, ma se non lo dovesse essere, se i pochi indizi riconducibili a lui fossero appartenenti ad un’altra (o più) persone, chi risarcirà gli anni persi dal ragazzo per combattere una causa in cui era del tutto innocente? Emerge inoltre che, durante gli anni in cui veniva sottoposto a giudizio, Stasi abbia pagato oltre 800.000 euro alla famiglia Poggi per l’omicidio di Chiara: per tutti i sacrifici fatti per ricavare quei soldi, quale sarebbe il giusto riconoscimento? Chi meriterebbe le colpe del madornale errore commesso?
Ovviamente non sta a noi giudicare la colpevolezza o l’innocenza del ragazzo. Tuttavia, se fosse davvero innocente, sarebbe giusto che chi ha sbagliato si fermasse a riflettere, chiedendosi se non sia il caso di assumersi le proprie responsabilità risarcendolo con gli adeguati metodi. La condanna, infatti, ha probabilmente compromesso non solo la sua carriera lavorativa, ma soprattutto un periodo fondamentale della sua vita: una vita che aveva ancora molto da offrire, spezzata ingiustamente da una giustizia che, forse, non ha voluto cercare fino in fondo la verità. Lo dimostra la scoperta, fin troppo tardiva, dell’impronta di Andrea Sempio sul luogo dell’omicidio: com’è possibile che ci siano voluti così tanti anni per accorgersene? Perchè non è stata indagata fin da subito una prova che sarebbe potuta essere decisiva fin dall’inizio dell’indagine?
Sicuramente la vicenda subirà importanti sviluppi nei prossimi mesi. Ma ciò che conta, oggi, è rispondere alle domande rimaste aperte — quelle della famiglia di Chiara, che dopo 18 anni attende ancora una verità definitiva. Perché, se davvero Alberto Stasi non fosse il colpevole, non saranno né il denaro né delle semplici scuse a restituire ciò che è stato tolto: una vita spezzata, e una giustizia che rischia di aver fallito
totalmente.